mercoledì 16 maggio 2012

Pronte per la prova bikini?


Piccola storia del capo di abbigliamento più temuto....
Il bikini appartiene, metaforicamente parlando, alla «storia dell’altro ieri», urne, affreschi e mosaici di epoca greca e romana (i più antichi risalgono addirittura al 1400 avanti Cristo) ci mostrano giovani donne che indossano curiosi costumi a due pezzi con una grazia e un’eleganza che nulla avrebbe da invidiare alle modelle dei nostri giorni. Dovevano essere utilizzati, a giudicare dalle pitture, per l’attività atletica e per la danza accompagnata da strumenti musicali .
Il bikini moderno vide la luce a Parigi nel 1946, ideato dall’ingegnere Louis Reard: la sua trovata avrebbe dovuto sollevare il morale degli Europei, duramente provati dalla Seconda Guerra Mondiale, ed esaltare la ritrovata libertà dopo i cupi anni della dittatura. Il nome del nuovo indumento richiamava l’atollo di Bikini nelle Isole Marshall, nel quale negli stessi anni gli Stati Uniti stavano conducendo test nucleari: Reard riteneva che l’introduzione del nuovo tipo di costume avrebbe avuto effetti esplosivi e dirompenti. Molti trovano inappropriata l’etimologia del nome bikini, dato che i test nucleari provocarono una seria crisi umanitaria e decenni di guerra fredda: si preferisce parlare talvolta di «due pezzi», e in effetti il bikini si compone di un pezzo superiore di forma simile ad un reggiseno e un pezzo inferiore che copre il pube oltre ad una parte più o meno ampia dei glutei, lasciando la pancia scoperta.
Uno dei primissimi bikini era indossato nel 1949 da una giovanissima Marilyn Monroe in spiaggia al mare, e da Brigitte Bardot sulla spiaggia di Nizza nel 1956. Ma ci vollero quindici anni perché il bikini negli Stati Uniti fosse ritenuto accettabile per il pubblico pudore. Nel 1958, il bikini di Brigitte Bardot nel film E Dio creò la donna diede origine ad un mercato per il costume negli Stati Uniti, e nel 1960 la canzone di Brian Hyland Itsy Bitsy Teenie Weenie Yellow Polka Dot Bikini diede l’avvio ad una corsa all’acquisto del costume. E come non ricordare Ursula Andress nei panni della Bond girl Honey Ryder in Agente 007 – Licenza di uccidere del 1962? La bellissima Ursula emerge dalle acque dell’oceano con il celebre bikini bianco e un pugnale.
Infine il bikini divenne popolare, e nel 1963 il film Beach Party, con Annette Funicello (enfaticamente non in bikini, dietro espressa richiesta di Walt Disney) e Frankie Avalon fu il primo di una serie di film che resero il costume un’icona della cultura popolare. I bikini furono indossati anche da Raquel Welch, eroina preistorica nel film Un milione di anni fa del 1966, e da Phoebe Cates in Fuori di testa del 1982. (http://www.storico.org/)
Oggi nel 2012 nel periodo tra maggio e giugno la domanda è sempre la stessa “pronte per la prova bikini?”
Quindi il capo di abbigliamento non è più un simbolo di ribellione verso il bigottismo ma uno strumento di esibizione del corpo che secondo i canoni estetici moderni deve essere tonico e snello....e voi siete pronte?

Dott.ssa Marianna Carone

martedì 15 maggio 2012

Peso e fame emotiva...

L'aumento di peso non è solamente dovuto all'eccesso di calorie ingerite, l'atto del mangiare, infatti, è condizionato da tantissimi fattori non solo di natura fisica ma anche di natura psicologica e sociale.
Ormai non si mangia solo perchè si ha fame ma alla base di questo atto, così naturale, ci sono dei condizionamenti di varia natura che non coinvologno esclusivamente un bisogno fisico ma soprattutto emotivo. Il rapporto con il cibo nell'ultimo secolo è notevolemte combiato nella società....il cibo è fruibile a tutti (almeno la maggior parte) e viene ricoperto di valenze che non sono esclusivamente nutritive.
Il problema con il cibo attualmente si risolve non più nella sua assenza ma nella sua sovrabbondanza.
Capita a tutti di mangiare in un particolare stato che può essere di gioia, quando ci si sposa si mangia o quando si festeggia una rorrenza, oppure in uno stato di malessere, sono triste o annoiato e quindi mangio, se questo avviene saltuariamente e in maniera consapevole non si dovrebbero avere problemi, ma ci sono persone che ripercuotono i loro stati d'animo sull'alimentazione e quando questo avviene ripetutamente, cioè goni volta in cui si presenta lo stimolo, e con grande senso di colpa, stiamo parlando della "fame emotiva".
 La fame emotiva si scatena in persone che di fronte ad uno stimolo stressorio ad es rabbia, tristezza, noia, felicità, ansia reagiscono mangiando. Ovviamente alla base di questo problema ci sono tantissimi fattori di natura psicologica e fisiologica. La fame emotiva è un atteggiamento che si trova nella maggior parte dei soggetti in sovarppeso o obesi, ecco perchè molto spesso, se non si riconosce questo tipo di disturbo, il sogetto in sovrappeso fallisce i tentavi di perdere peso.
Attualmente prima di cominciare un percorso di dimagrimento nei soggetti obesi bisogna indagare attentamente le cause che hanno indotto l'aumento di peso e impare a gestire il problema e rimuoverlo.
Non si tratta di un percorso semplice ma di un percorso che se svolto correttamente può portare alla soluzione del problema. Un approccio psiconutrizonale prevede la collaborazione della figura dello psicologo con quello del nutrizionista per aiutare la persona che desidera perdere peso e capire e interpretare gli stimoli emotivi. Un approccio di questo tipo considera la persona nella sua totalità psicobiologica e tiene presente della multifattorietà dell'obesità.
L'obbiettivo  di un percorso dietetico e psciologcio è quello di rimuovere gli stimoli che portano alla fame nervosa, in questo modo si previene il riacquisto del peso e si spezzano i circoli viziosi che hanno portato al sovrappeso. La terapia in questo contesto deve servire a comprendere e gestire le emozioni e a capire i propri stimoli fisici di fame e sazietà.
Il percorso psico- nutrizionale ha come obiettivo la comprensione e il cambiamento della relazione tra alimentazione, emozioni peso e corpo.
Quando si rompe il circolo vizioso che lega aumento il cibo alle emozioni la perdita di peso diventa accessibile e duratura.

Dott.ssa Marianna Carone

mercoledì 9 maggio 2012

Il Bambino dallo Psicologo: come spiegargli il perchè dell'intervento

Spesso i genitori che si rivolgono ad uno psicologo per una consulenza riguardante il proprio figlio hanno difficoltà nell’immaginarsi come comunicare al bambino l’opportunità che lui faccia delle sedute a scopo diagnostico.
In situazioni simili è importante che essi condividano con lo specialista innanzitutto le proprie ipotesi, a partire dalle quali pensare insieme cosa riferire al figlio e come farlo.

Un punto di partenza fondamentale è quello di essere sinceri con il bambino. Questo per almeno tre ordini di motivi.

  • In primo luogo perché se un bambino manifesta dei sintomi di disagio è importante possa avvertire che i propri genitori ne sono consapevoli e che hanno a cuore il fatto di affrontare la questione.
  • Secondariamente perché sentendosi, per quanto sopra, capito e supportato dai propri adulti di riferimento, possa affrontare con maggior serenità il momento di conoscenza con lo psicologo.
  • Potrà inoltre sperimentare come i propri genitori non siano “onnipotenti” (fantasia abbastanza tipica durante l’infanzia): anch’essi possono avere bisogno di un aiuto esterno, e questo lo sosterrà nel favorire una maggiore messa in gioco personale all’interno del processo conoscitivo con lo psicologo.

  • Il tutto si pone nell’ottica fondamentale, all’interno del contesto della consultazione psicologica, di poter incoraggiare la massima collaborazione attiva da parte del paziente, che possa sentirsi quanto più possibile libero di manifestare i propri pensieri, emozioni, affetti.
    La consultazione psicologica con un bambino, proprio per la particolarità di rivolgersi a un individuo in piena fase evolutiva, si avvale di strumenti tipici che possano facilitare l’emergere di contenuti ,verbali e non, utili allo specialista per la comprensione del funzionamento psichico del bambino in questione. Normalmente nello studio di uno psicologo dell’età evolutiva sono quindi presenti materiali per disegnare e oggetti di diverso tipo: animali, bambole, personaggi che rappresentino una famiglia, costruzioni, plastilina, oggetti di uso quotidiano (ad esempio pentolini, piatti e posate, oppure il cellulare), giochi strutturati (puzzle, il gioco dell’oca, il domino, etc.), macchinine, riproduzioni di armi come spada o pistola.
    Al bambino potrà essere spiegato che avrà a disposizione questo genere di oggetti durante la seduta, così da farlo sentire accolto e da rinforzare in lui la consapevolezza di poter affrontare l’esperienza con i propri mezzi: in questo senso è il setting ad adattarsi al paziente, e non viceversa.

    Più piccolo è il bambino, infatti, più la componente verbale è mancante nell’interazione con lo psicologo, mentre vengono utilizzati altri canali, più congeniali al raggiungimento dell’obiettivo e alla ricerca di significato dei contenuti che emergono, sui quali si può lavorare per formulare una diagnosi.

    E’ anche possibile che il professionista abbia intenzione/necessità di utilizzare dei test specifici, il cui contenuto e modalità operative potranno di volta in volta essere spiegate direttamente, evitando aspettative sproporzionate. Questo anche perché, soprattutto in età scolare, è verosimile che un bambino assimili la parola “test” (e la concezione che ne ha in mente) con ciò che di più simile esiste già nella propria esperienza, cioè una verifica scolastica: con il chiaro rischio di avvicinarsi alla prova in maniera oltremodo apprensiva, e rischiando quindi una falsificazione dei contenuti.
    A volte, inoltre, sono le questioni dei genitori a ricadere pesantemente sui figli (ad esempio in caso di una separazione particolarmente conflittuale, di un grave lutto, della presenza di un familiare gravemente malato  fisicamente o psicologicamente),  e allora l’intervento dello psicologo potrà avere una funzione in qualche modo preventiva: non si aspetta che il bambino manifesti un disagio specifico, ma si interviene a monte. In casi simili la comunicazione chiara delle motivazioni alla base del consulto è importante, in quanto deresponsabilizzando il bambino, può agevolare la sua alleanza con lo specialista.

    In alcune occasioni, infine, lo specialista può avvalersi dell’opportunità di effettuare delle osservazioni del bambino alla presenza di uno o di entrambi i genitori (in coppia o singolarmente): è importante spiegare adeguatamente che si tratta di un setting particolare, predisposto per raggiungere obiettivi collegati alla condivisione diretta delle dinamiche affettive circolanti in famiglia.

    In ogni caso un bambino, circa dai 2 anni in poi, può essere in grado di entrare da solo nello studio dello psicologo, ma ciò è collegato in gran parte dal sentirsi emotivamente supportato da genitori: se un figlio inconsciamente sente in qualche modo di tradire i genitori o avverte il loro timore, allora farà molta fatica ad affidarsi allo specialista, e chiederà con forza di essere accompagnato fin dentro lo studio. Spesso può invece bastare la rassicurazione del fatto che il genitore rimanga nella sala d’aspetto, eventualmente a disposizione nel caso il piccolo senta il bisogno di sincerarsi della sua presenza, per poi tornare in stanza da solo.

    dott.ssa Manuela Carone

    Fonte: http://www.psicoterapia-milano.it/infanzia-e-adolescenza

    venerdì 4 maggio 2012

    Insomma, nella pancia c'è un cervello che «assimila e digerisce non solo il cibo, ma anche informazione ed emozioni che arrivano dall'esterno».

    Michael D. Gershon, esperto di anatomia e biologia cellulare della Columbia University,ha presentato a la «teoria dei due cervelli» sul suo libro "Il secondo cervello" edito da UTET nel 2006. 

    «Quanti hanno sperimentato la sensazione delle "farfalle nello stomaco" durante una conversazione stressante o un esame?». E' solo un esempio delle emozioni «della pancia», come nausea, paura, ma anche dolore e angoscia.
    "Sappiamo che, per quanto il concetto possa apparire inadeguato, il sistema gastroenterico è dotato di un cervello. Lo sgradevole intestino è più intellettuale del cuore e potrebbe avere una capacità "emozionale" superiore. E il solo organo a contenere un sistema nervoso intrinseco in grado di mediare i riflessi in completa assenza di input dal cervello o dal midollo spinale."

     «La teoria dei due cervelli poggia su solide basi scientifiche - spiega l'esperto americano - Basti pensare che l'intestino, pur avendo solo un decimo dei neuroni del cervello, lavora in modo autonomo, aiuta a fissare i ricordi legati alle emozioni e ha un ruolo fondamentale nel segnalare gioia e dolore. Insomma, l'intestino è la sede di un secondo cervello vero e proprio. E non a caso le cellule dell'intestino - aggiunge Gershon - producono il 95% della serotonina, il neurotrasmettitore del benessere»

    "L’evoluzione ci ha giocato uno scherzetto. Quando i nostri avi emersero dal brodo primordiale ed acquisirono una spina dorsale, svilupparono anche un cervello nella testa ed un intestino con una intelligenza propria. In tal modo, l’organismo poteva dedicarsi a cose più piacevoli, tipo la ricerca del cibo, lo sfuggire alla distruzione e fare sesso con altri organismi. Tutto ciò poteva verificarsi mentre l’intestino si occupava della digestione e dell’assorbimento fuori dalla norma comunemente accettata della cognizione. Non era necessario dedicare dell’energia cerebrale a faccende relative ai visceri, perchè questi si occupavano personalmente di sé stessi. […]

    Il sistema nervoso enterico è una curiosità, un residuo che abbiamo conservato dal nostro passato evolutivo. Di certo, non suona come qualcosa che possa attirare l’interesse di tutti, invece dovrebbe. L’evoluzione è un revisore potente. Le parti del corpo futili o non assolutamente necessarie hanno poche possibilità di farcela a superare le difficoltà della selezione naturale. Tuttavia, un sistema nervoso enterico è stato presente in ciascuno dei nostri predecessori nel corso di milioni di anni della storia dell’evoluzione che ci separa dal primo animale dotato di spina dorsale. Quindi, il sistema nervoso enterico deve essere più di una reliquia. Di fatto, il sistema nervoso enterico è un centro di elaborazione dati moderno e pieno di vita che ci consente di portare a termine alcuni compiti molto importanti e spiacevoli senza alcuno sforzo mentale. Quando l’intestino assurge al livello di percezione cosciente, sotto forma, ad esempio, di acidità di stomaco, crampi, diarrea o stitichezza, non si entusiasma certo nessuno. Vogliamo che siano i nostri visceri ad occuparsene, in modo efficace ed al di fuori della nostra consapevolezza. Poche cose sono più penose di un intestino inefficiente dotato di sensibilità....


    «A lungo l'intestino è stato considerato una struttura periferica, deputata a svolgere funzioni marginali. Ma la scoperta di attività che implicano un coordinamento a livello emozionale e immunologico ha rivoluzionato questo pensiero - spiega Umberto Solimene dell'Universitá di Milano, direttore del centro collaboratore Oms per la medicina tradizionale - Nella pancia troviamo infatti tessuto neuronale autonomo».
    L'intestino rilascia serotonina in seguito a stimoli esterni, come immissione di cibo, ma anche suoni o colori. E a input interni: emozioni e abitudini. «Insomma questo neurotrasmettitore è come un direttore d'orchestra, che manovra le leve del movimento intestinale. Studi su cavie geneticamente modificate, ma anche in vitro, «hanno dimostrato l'esistenza di un asse pancia-testa». Per Gershon è la prima a dominare, almeno in certi campi. «La quantità di messaggi che il cervello addominale invia a quello centrale è pari al 90% dello scambio totale», sostiene il ricercatore. Per la maggior parte si tratta di messaggi inconsci, che percepiamo solo quando diventano segnali di allarme e scatenano reazioni di malessere.

    Dott.ssa Marianna Carone, Nutrizionista

    mercoledì 2 maggio 2012

    Le Donne, Le Mele e Shakespeare


    A tutte le donne che cadono per essere raggiunte, perchè non si facciano calpestare o semplicemente raccogliere da terra, ma che attendano sull'albero di maturare, da sole, godendo di quello che sono, sicure di quello che diventeranno, certe che allora chi le coglierà sarà degno di loro.

    dott.ssa Manuela Carone


    Le ragazze sono come le mele sugli alberi.
    Le migliori sono sulla cima dell'albero.
    Gli uomini non vogliono arrivare alle migliori,
    perché hanno paura di cadere e di ferirsi.
    In cambio, prendono le mele che sono cadute a terra,
    e che, per non essendo buone,
    sono facili da raggiungere.
    Perciò le mele che stanno sulla cima dell'albero,
    pensano che qualcosa non vada in loro,
    mentre in realtà "esse sono meravigliose".
    Semplicemente devono essere pazienti e
    aspettare che l'uomo giusto arrivi,
    colui che sia così coraggioso da arrampicarsi
    fino alla cima dell'albero per esse.
    Non devono cadere per essere raggiunte,
    chi avrà bisogno di loro e le ama
    farà di tutto per raggiungerle.
    La donna uscì dalla costola dell'uomo,
    non dai piedi per essere calpestata,
    né dalla testa per essere superiore.
    Ma dal lato per essere uguale, sotto
    il braccio per essere protetta e
    accanto al cuore per essere amata.

    William Shakespeare


    La versione originale, in inglese, presentata con un calligramma è questa:

    Girls are like
    apples on trees. The best
    ones are at the top of the tree.
    The boys don't want to reach for
    the good ones because they are afraid
    of falling and getting hurt. Instead, they
    just get the rotten apples from the ground
    that aren't as good, but easy. So the apples
    at the top think something is wrong with
    them, when in reality, they're amazing.
    They just have to wait for the right
    boy to come along, the one
    who's brave enough
    to climb
    all the way
    to the top
    of the tree.